Burqa - Dialogo e integrazione

Ci si può integrare coprendosi il volto?

In questo periodo è molto accesa la discussione riguardo la chiusura temporanea delle frontiere, le barriere nei confini di alcuni stati europei, e non solo, con l’intento di limitare drasticamente un flusso migratorio sproporzionato, causato in parte da guerre, da condizioni economiche pessime, dal clima, ecc. In contrapposizione a queste soluzioni difensive dell’Europa primeggiano invece le politiche di accoglienza e di dialogo, anche se molto spesso sporcate da un grosso e vergognoso velo di ipocrisia, giustificato da un business spudorato, incentrato sia sulla tratta degli esseri umani che sulla logistica fatiscente che vede “accogliere” gli immigrati per poi lasciandoli vaganti senza un minimo di orientamento e aiuto concreto, come avviene in molti comuni italiani (persino in quelli in cui l’amministrazione è in mano a partiti favorevoli all’accoglienza). Se da una parte si ritiene giusto abbattere qualsiasi barriera, da un’altra vi è una consistente corrente culturale che, al contrario, vorrebbe conservare una sorta di barriera sociale, a discapito proprio del dialogo e dell’integrazione tra gli immigrati e i cittadini dei paesi che li accolgono, senza un minimo sforzo di rendere più elastiche le proprie usanze, a volte incompatibili con quelle dell’Occidente.

BurkaUno dei temi attuali che riguardano il dialogo sociale e interreligioso risiede nell’abbigliamento, che in alcuni casi può costituire una vera e propria sorta di barriera sociale, molto lontana dal dialogo. Il burqa è un tipo di velo tradizionale islamico che copre interamente il corpo e il viso delle donne, e che permette loro di vedere solo attraverso una ristretta retina all’altezza degli occhi. In linea generale, nella tradizione culturale islamica il burqa presenta due varianti: la prima è una sorta di velo fissato al capo che copre l’intera testa, permettendo di vedere solamente attraverso una finestrella all’altezza degli occhi e che lascia gli occhi stessi scoperti; mentre, la seconda, indentificata meglio come burqa completo, è un abito che copre sia la testa sia il corpo. All’altezza degli occhi, inoltre, è posta una retina che permette di vedere parzialmente senza scoprire gli occhi della donna.
Tornando alla delicata tematica dell’integrazione, basata in gran parte proprio sul dialogo, che tipo di apertura comunicativa può esserci se non vi è nemmeno la possibilità di guardare negli occhi una persona? Nell’era moderna, in pieno 2016, è forse considerato peccato per una donna lasciarsi guardare negli occhi durante una conversazione civile?

Spostandoci invece in ambito di sicurezza pubblica, in alcuni Stati europei indossare il burqa costituisce reato; in Italia ancora non del tutto, nel senso che la legge presenta un margine di interpretazione alquanto elastico: “È vietato l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo. È in ogni caso vietato l’uso predetto in occasione di manifestazioni che si svolgano in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo che tale uso comportino. Il contravventore è punito con l’arresto da uno a due anni e con l’ammenda da 1.000 a 2.000 euro. Per la contravvenzione di cui al presente articolo è facoltativo l’arresto in flagranza”. Ma è proprio sull’interpretazione della clausola “senza giustificato motivo” che si intravede l’attenuante, ritenendo la matrice religiosa-culturale un giustificato motivo per poter circolare indossando un un burqa, o un altro tipo di velo islamico che ricopra completamente il viso.

L’equazione dell’integrazione non dovrebbe essere la reciprocità, ovvero una via di mezzo di tolleranza tra 2 culture differenti, anziché l’imposizione a tutti i costi di usanze culturali estreme che in Occidente possono facilmente ricordare l’era medievale?

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– Steve Evans from India and USA (Flickr) [CC BY 2.0 (http://creativecommons.org/licenses/by/2.0)], via Wikimedia Commons